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Giurisprudenza e approfondimenti del mese di Marzo

Giurisprudenza e approfondimenti del mese di Marzo

Le sentenze più interessanti del mese di Marzo: analisi e commento.

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La delega da parte del datore di lavoro, in relazione alla prevenzione dal Covid-19, è valida solo se conferita con pieni poteri.

Cassazione Penale, Sentenza n. 9028 del 17 marzo 2022

MASSIMA:
“In materia di sicurezza sul lavoro, la delega (con atto notarile) nei confronti di un proprio dirigente – in assenza di un contestuale conferimento di poteri decisionali e di spesa riferiti all’intera struttura organizzativa – non esonera da responsabilità il datore di lavoro per l’omessa valutazione del rischio (DVR) connesso alle “malattie trasmissibili pandemia Covid – 2019″. Così la Suprema Corte ha cassato con rinvio la pronuncia assolutoria resa nei confronti del Ceo e capo di un importante gruppo bancario, responsabile – come datore di lavoro – per le inadempienze in merito alla valutazione del rischio Coronavirus”.

CONCETTO TRATTATO:
In materia di sicurezza sul lavoro, la delega (con atto notarile) nei confronti di un proprio dirigente – in assenza di un contestuale conferimento di poteri decisionali e di spesa riferiti all’intera struttura organizzativa – non esonera da responsabilità il datore di lavoro per l’omessa valutazione del rischio (DVR) connesso alle “malattie trasmissibili pandemia Covid – 2019”.

COMMENTO:
Un dirigente (CEO), accusato di non aver elaborato correttamente la valutazione dei rischi connessa alle “malattie trasmissibili pandemia Covid – 2019”, veniva assolto nei primi gradi di giudizio in quanto aveva dimostrato che la qualifica di datore di lavoro era attribuibile ad un altro dirigente aziendale a cui era stata conferita la relativa delega.

La Procura ricorreva quindi in Cassazione, sostenendo che  la qualifica di “datore di lavoro”, rilevante ai fini delle violazioni contestate, competeva all’imputato quale consigliere delegato, CEO e capo dell’azienda; infatti, l’art.2 del d.lgs. 81 del 2008 definisce il datore di lavoro come il soggetto titolare del rapporto di lavoro avente la responsabilità dell’organizzazione in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa.

Il datore di lavoro può, in via generale, delegare i suoi poteri ad un soggetto specifico che possieda i requisiti richiesti dalla legge e, nel caso specifico, la delega era stata effettuata ad un altro dipendente, avente qualifica di dirigente, con atto notarile.

Tuttavia, l’art.17 del d. lgs. N.81 del 2008 esclude espressamente che la facoltà di delega operi per la valutazione dei rischi e per la designazione del responsabile per la sicurezza: pertanto, secondo la Procura, il dato letterale della norma appare incontestabile e, conseguentemente l’imputato avrebbe dovuto essere chiamato a rispondere delle omissioni contestatigli nell’imputazione; perciò veniva chiesto, alla luce di quanto sopra, l’annullamento della sentenza impugnata.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 9028 depositata il 17 marzo 2022, accoglieva il ricorso richiamando il principio per cui, in materia di sicurezza sul lavoro, la delega notarile al proprio dirigente – in assenza di un contestuale conferimento di poteri decisionali e di spesa riferiti all’intera struttura organizzativa – non esonera da responsabilità il datore di lavoro per l’omessa valutazione del rischio (DVR) connesso alle “malattie trasmissibili pandemia Covid – 2019”.

In merito all’art.2, lett.b) del d.lgs. n.81 del 2008, la Suprema Corte sottolinea che: “Tale disposizione, infatti, individua il datore di lavoro nella persona che è “titolare del rapporto di lavoro” o che comunque “ha la responsabilità dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa” con riferimento a tutta l’operatività aziendale. L’unicità del concetto di datore di lavoro impone di escludere che la relativa figura possa essere sotto-articolata a seconda delle funzioni svolte o dei settori produttivi e che la medesima organizzazione, ove unitaria, o una sua unità produttiva possano conoscere la compresenza di più datori di lavoro”.

In pratica, viene chiarita la distinzione tra titolare del rapporto di lavoro “in senso prevenzionale/sicuristico”, e datore di lavoro “in senso giuslavoristico”, inteso quest’ultimo come “titolare del rapporto di lavoro” che «ha la responsabilità dell’organizzazione stessa o dell’unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa» con riferimento a tutta l’operatività aziendale; quando, quindi, la delega non riguarda (come nel caso in esame) “l’intera organizzazione e l’intero rapporto giuslavoristico” lascia intatta in capo al delegante la qualifica di datore di lavoro, che resta l’unico titolare degli adempimenti previsti in materia di sicurezza.

L’altro dirigente coinvolto era stato investito di una delega parziale di funzioni e responsabilità che non includeva l’attribuzione di poteri decisionali e di spesa riferiti all’intera struttura organizzativa, pertanto l’imputato restava unico titolare degli adempimenti previsti in materia di sicurezza in qualità di datore di lavoro.

La Corte quindi annullava la sentenza impugnata con rinvio per un nuovo giudizio al Tribunale di primo grado.


Cassazione Penale, Sentenza n. 7093 del 1° marzo 2022.

MASSIMA:
“Il datore di lavoro, anche nei confronti dei soggetti che svolgono tirocini formativi, deve osservare tutti gli obblighi previsti dal D.Lgs n. 81/2008 in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.”. 

CONCETTO TRATTATO:
Il datore di lavoro ha gli stessi obblighi in materia di sicurezza sul lavoro anche nei confronti dei tirocinanti.

COMMENTO:
Una titolare di una impresa agricola, condannata per l’infortunio occorso a una stagista della sua azienda durante le operazioni di pulitura di un grosso tino, ricorreva in Cassazione.

La Corte d’Appello, infatti, l’aveva condannata del reato di lesioni personali colpose nei confronti di una studentessa universitaria in tirocinio formativo presso la sua azienda in quanto avrebbe violato le norme in materia di sicurezza sul lavoro e, segnatamente, di avere disposto che l’attività di lavaggio di un tino venisse eseguita senza alcuna preventiva valutazione del rischio, in carenza assoluta di una precipua formazione e senza munire la tirocinante dei necessari dispositivi di protezione.

Tra i motivi di ricorso, la ricorrente sosteneva come la responsabilità dell’infortunio fosse a capo dell’Università, che avrebbe avuto l’obbligo di provvedere direttamente alla copertura assicurativa del tirocinante contro gli infortuni sul lavoro, anche per eventuali attività svolte al di fuori dell’azienda, purchè rientranti nel progetto formativo. Risulterebbe dimostrato a mezzo della documentazione in atti che la responsabilità per la sicurezza della persona offesa, durante l’espletamento del tirocinio curriculare, avrebbe dovuto ricadere integralmente sull’Università con conseguente totale esonero per l’Azienda ospitante della ricorrente; la titolare aveva anche incaricato un tecnico specializzato per la valutazione dei rischi all’interno dell’azienda, dovendosi anche considerare l’assenza di problematiche simili antecedentemente all’infortunio verificatosi.

Inoltre, sosteneva che l’infortunio occorso al dito della mano destra della tirocinante fosse dipeso, in via esclusiva, da un comportamento istantaneo ed imprevedibile della stessa, non collegato al compito affidatole.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 7093 depositata il 1° marzo 2022, rigettava il ricorso ritenendo applicabile al caso di specie l’art. 2, comma 1, lettera a), del D.Lgs n. 81/2008, equiparando al lavoratore, ai fini della norma citata, coloro che «svolgono attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro […] anche al solo fine di apprendere un mestiere, nonché il beneficiario delle iniziative di tirocini formativi e di orientamento».

La Corte, dopo aver chiarito il principio sopra esposto, sottolineava quindi che: “conseguentemente, nella specifica ipotesi in cui presso un’azienda siano presenti soggetti che svolgano tirocini formativi, il datore di lavoro sarà tenuto ad osservare tutti gli obblighi previsti dal citato testo unico al fine di garantire la salute e la sicurezza degli stessi”.

Il datore di lavoro, infatti, deve osservare tutti gli obblighi previsti dal D.Lgs n. 81/2008 in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro anche nei confronti dei soggetti che svolgono tirocini formativi.

La Corte sottolineava “come il datore di lavoro non avesse dotato la (…) dei mezzi di protezione individuali (guanti antitaglio) necessari per eseguire l’operazione, tenuto conto delle caratteristiche del coperchio e del fatto che esso non fosse trattenuto in nessun modo nel momento in cui veniva spostato”.

Di conseguenza, il datore di lavoro – anche nei confronti del tirocinante – ha il dovere di osservare tutti gli obblighi previsti dalla normativa in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, con particolare riferimento alle regole cautelari di previsione del rischio specifico cui il lavoratore è esposto nell’attività a cui è adibito, di formazione e informazione dello stageur e di fornitura di idonei dispositivi di protezione.

La Corte precisava anche che l’avvalersi di un professionista incaricato della gestione delle tematiche in materia di salute e sicurezza non esonera il datore di lavoro dagli obblighi di valutazione del rischio che non sono demandabili a terzi.

In relazione all’asserito comportamento imprevedibile della tirocinante, la Corte sosteneva il principio secondo cui, quando l’evento sia riconducibile alla violazione di una molteplicità di disposizioni in materia di prevenzione e sicurezza del lavoro, il comportamento del lavoratore che abbia disapplicato anche elementari norme di sicurezza non può considerarsi eccentrico o esorbitante dall’area di rischio propria del titolare della posizione di garanzia: “Ciò in quanto la carenza delle necessarie forme di tutela determinano un ampliamento della stessa sfera di rischio fino a ricomprendervi atti il cui prodursi dipende dall’inerzia del datore di lavoro”.

La Corte, pertanto, dichiarava inammissibile il ricorso e condannava la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende nonché alla rifusione delle spese di giudizio di legittimità in favore della tirocinante.


Cassazione civile, Sezione Lavoro, Ordinanza n. 32473 dell’8 novembre 2021.

MASSIMA:
“Non è indennizzabile l’infortunio subito dal lavoratore durante la pausa al di fuori dell’ufficio dove presta la propria attività e lungo il percorso seguito per andare al bar a prendere un caffè. In tale circostanza, infatti, il lavoratore si espone volontariamente ad un rischio non necessariamente connesso all’attività lavorativa per il soddisfacimento di un bisogno procrastinabile e non impellente, interrompendo così la necessaria connessione causale tra attività lavorativa ed incidente.”.

CONCETTO TRATTATO:
Non è dovuto nessun indennizzo al lavoratore che si infortuna durante la pausa al di fuori dell’ufficio dove presta la propria attività e lungo il percorso seguito per andare al bar a prendere un caffè..

COMMENTO:
Una Corte d’Appello rigettava l’impugnazione proposta dall’INAIL avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva accolto in parte la domanda proposta da un’impiegata presso la Procura della Repubblica di Firenze, nei riguardi dell’INAIL al fine di ottenere l’indennità di malattia per inabilità assoluta temporanea oltre all’indennizzo corrispondente ad un danno permanente del 10% in relazione ad un infortunio occorsole lungo il tragitto che stava percorrendo a piedi, in rientro da una breve ” pausa caffè”.

Il Tribunale, oltre a riconoscere che il rischio assunto dalla lavoratrice non poteva considerarsi generico, permanendo il nesso eziologico con l’attività lavorativa, posto che la pausa era stata autorizzata dal datore di lavoro ed era assente il servizio bar all’interno dell’ufficio, ha valutato la complessiva percentuale di invalidità considerando anche una precedente invalidità lavorativa;

la Corte d’appello confermava le motivazioni del primo giudice, ritenendo che l’evento fosse connesso ed accessorio all’attività di lavoro e non ricorresse una ipotesi di rischio.

Pertanto, nei primi gradi di giudizio, i giudici di merito avevano dato ragione alla lavoratrice, ritenendo il rischio assunto dalla stessa non generico, «permanendo il nesso eziologico con l’attività lavorativa, posto che la pausa era stata autorizzata dal datore di lavoro ed era assente il servizio bar all’interno dell’ufficio».

L’INAIL ricorreva quindi in Cassazione, sostenendo che l’impiegata osservava un orario di lavoro continuato dalle ore 9,00 alle 15,00 e che aveva timbrato il cartellino in uscita per effettuare, insieme a due colleghe, la cosiddetta ” pausa caffè” di metà mattina presso un vicino bar e che in tale frangente era caduta mentre percorreva un breve tragitto a piedi procurandosi un trauma al polso destro; si sarebbe trattato, dunque, di un rischio assunto volontariamente dalla lavoratrice non potendo ravvisarsi nell’esigenza di prendere un caffè i caratteri del necessario bisogno fisiologico che avrebbero consentito di mantenere la stretta connessione con l’attività lavorativa.

La Corte, con Ordinanza n. 32473 depositata l’8 novembre 2021, accoglieva il ricorso.

Infatti, le circostanze per cui la pausa fosse stata autorizzata dal datore di lavoro e che fosse assente il servizio bar all’interno dell’ufficio non sono rilevanti per la Corte, che ha chiarito come in tale situazione, la lavoratrice, allontanandosi dall’ufficio per raggiungere un vicino pubblico esercizio “si sia volontariamente esposta ad un rischio non necessariamente connesso all’attività lavorativa per il soddisfacimento di un bisogno certamente procrastinabile e non impellente, interrompendo così la necessaria connessione causale tra attività lavorativa ed incidente”.

Inoltre, “non può essere ricondotta alla “occasione di lavoro” l’attività, non intrinsecamente lavorativa e non coincidente per modalità di tempo o di luogo con le prestazioni dovute, che non sia richiesta dalle modalità di esecuzione imposte dal datore di lavoro o in ogni caso da circostanze di tempo e di luogo che prescindano dalla volontà di scelta del lavoratore”.

La sosta al bar, spiegava la Suprema Corte, non era legata in alcun modo ad esigenze lavorative, e la caduta nel percorso per recarvisi non poteva essere risarcita causa l’assenza del necessario nesso tra il rischio corso e l’attività svolta.

Pertanto, non potendo affermare che la caduta fosse dovuta in “occasione di lavoro”, veniva escluso il risarcimento.

La Corte quindi accoglieva il ricorso, cassava la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigettava la domanda proposta dall’impiegata e condannava la medesima al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.