Cassazione Civile, sezione lavoro, sentenza n. 20823 del 30 giugno 2022.
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MASSIMA:
“I lavoratori non hanno l’onere di dimostrare la violazione di norme antinfortunistiche ma solo il nesso di causalità tra le mansioni espletate e la nocività dell’ambiente di lavoro, restando a carico del datore di lavoro la prova di avere adottato tutte le misure esigibili in concreto”.
CONCETTO TRATTATO:
Incombe sul lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro e il nesso tra l’una e l’altra.
COMMENTO:
Riformando la sentenza di primo grado, una Corte d’appello aveva respinto la domanda risarcitoria formulata dai dipendenti di una impresa operante nel settore della costruzione e della manutenzione di reti elettriche, che chiedevano la condanna del datore di lavoro al pagamento del danno biologico differenziale derivato dall’espletamento dell’attività di lavoro in assenza delle necessarie condizioni di sicurezza.
I giudici di secondo grado, nel motivare la decisione, avevano affermato che i lavoratori, sui quali ricadeva il relativo onere, non avevano fornito la prova di specifiche omissioni datoriali nella predisposizione delle misure di sicurezza richieste dalla particolarità delle lavorazioni svolte.
Gli imputati ricorrevano in Cassazione la quale, con sentenza n. 20823 depositata il 30 giugno 2022, accoglieva il ricorso.
La Cassazione, accogliendo il ricorso dei lavoratori, sottolineava il seguente principio di diritto: “l’art. 2087 Cc non configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro – di natura contrattuale – va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento; ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’una e l’altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno”.
In pratica, la Corte di Cassazione rilevava come il ragionamento della Corte d’appello in merito alla ripartizione dell’onere probatorio fosse in contrasto con l’orientamento da tempo consolidatosi in seno alla giurisprudenza di legittimità, secondo cui il lavoratore che lamenti di aver subito un danno alla salute nell’espletamento delle proprie mansioni è tenuto esclusivamente a provare (a) l’esistenza del danno, (b) la nocività dell’ambiente di lavoro e (c) il nesso tra danno e ambiente nocivo. Una volta che il lavoratore abbia fornito tale prova, grava invece sul datore di lavoro l’onere di dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie a evitare il verificarsi del danno.
La Corte d’Appello, quindi errava nel porre a carico dei lavoratori il dovere di dimostrare la violazione da parte del datore di lavoro di specifiche misure antinfortunistiche – anche innominate – laddove essi erano tenuti solo a dimostrare il nesso di causalità tra le mansioni espletate e la nocività dell’ambiente di lavoro, restando a carico del datore di lavoro la prova di avere adottato tutte le misure (anche quelle cd. innominate) esigibili in concreto. Pertanto, la Corte di Cassazione accoglieva il ricorso, cassava la sentenza impugnata e rinviava alla Corte d’appello per il riesame del materiale istruttorio e degli esiti della prova, orale e documentale, alla luce del richiamato criterio di ripartizione degli oneri probatori.